30 dicembre 2023 – Lasciare casa e andare a vivere in camper. Una scelta sicuramente per pochi, da valutare con grande attenzione, che può essere fatta per diversi motivi. E che può dare grandi soddisfazioni o creare enormi difficoltà, in base alle condizioni e alle aspettative di ciascuno. Sicuramente l’elemento più importante in assoluto, tra quelli “pratici” è capire la sostenibilità economica di questo stile di vita, anche in funzione di come si è abituati (o si aspira) a vivere. Le ricette sono molte e variegate. Io, per esempio, mi annovero fra i “nomadi digitali”, ovvero fra quelle persone che, grazie a un computer e a una connessione Internet, possono lavorare da qualsiasi luogo.
Il secondo elemento che per alcuni può essere non solo importante, ma addirittura fondamentale, è quello della residenza. È un tema semplice e complesso allo stesso tempo. E per questo non sarò breve: se l’argomento vi interessa, mettetevi comodi, regolate al massimo il livello di attenzione e prendetevi il tempo che serve a leggere questo mio intervento…
Molti parlano di “residenza fittizia” o di “residenza in camper”, ma questi non sono termini corretti. La legislazione italiana fa delle nette distinzioni fra residenza, domicilio e dimora. La base di partenza è quindi conoscere il significato di queste tre parole, sapendo che in tutti i casi si tratta di dichiarazioni del cittadino/a (che devono ovviamente essere veritiere) e non di concessioni degli enti preposti.
Le definizioni corrette
La residenza, secondo il diritto italiano, è “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale” (art. 43, II comma del Codice Civile). Non va confusa con la dimora, che rappresenta invece il luogo in cui un soggetto si trova occasionalmente. Il domicilio, infine, corrisponde al luogo in cui una persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”(articolo 43, primo comma c.c.). Gli interessi non sono solo di natura economica, ma anche personale, sociale e politica.
Il risultato è che se si vive stabilmente in camper spostandosi liberamente si è persone “senza fissa dimora”, che non significa “senza tetto” (per quello abbiamo il camper), ma semplicemente che si è deciso di non soggiornare stabilmente sempre nello stesso luogo fisico. Ed è quindi a questa definizione che bisogna appellarsi per vedere riconosciuta la condizione di “residente senza fissa dimora” ed essere iscritti alle liste anagrafiche di un Comune italiano.
Più avanti parlerò anche del tema della “via fittizia”, ovvero di quella via che non esiste ma che un Comune può indicare come residenza per i senza fissa dimora, e del domicilio digitale, cioè l’indirizzo di Posta Elettronica Certificata (PEC) che può sostituire il domicilio fisico. Il domicilio (fisico o digitale) è infatti indispensabile per non essere considerati “irreperibili” dalla Pubblica Amministrazione, che deve sempre essere in grado di consegnare eventuali atti formali (come multe o comunicazioni giudiziarie).
Assicurarsi i diritti fondamentali
Chiunque vada a vivere in camper deve porsi il problema della residenza, perché a questa sono connessi dei diritti fondamentali, come per esempio quello alla tutela della salute (con l’assistenza sanitaria) e quello di voto. La situazione più semplice è quella di chi possiede un immobile o lo ha in affitto, e in cui ha già la residenza, e che decide di tenerlo. In questo caso ci si può spostare in camper senza alcuna remora: medico di base e seggio elettorale rimangono invariati.
Molti, però, si “disfano” di queste proprietà o locazioni. È successo anche a noi, quando nel 2019 ci siamo spostati in camper. All’epoca, però, decidemmo per una soluzione all’italiana: dichiarare la residenza presso la casa dei miei genitori. Ci fu consigliato dall’ufficio anagrafe del nostro Comune, e in effetti la cosa è stata facile e indolore. Ma non priva di effetti secondari discutibili. Il primo è che le imposte comunali a carico dei miei genitori sono notevolmente aumentate, per effetto del fatto che il nucleo familiare era passato da due a quattro persone. E nonostante noi quei servizi (teoricamente) non li utilizzassimo. Ma è arrivato il Covid e con il camper parcheggiato per diversi mesi a casa dei miei alla fine non è stato proprio così; quindi, non è stato del tutto sbagliato pagare quel tipo di imposte.
Il secondo problema è che la nostra presenza nel nucleo familiare ha comportato un diverso ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) sia per i miei genitori, di cui uno solo è pensionato, sia per noi. Questo non è un grosso problema per chi ha posizioni economiche tranquille, ma chi invece è in difficoltà e potrebbe avere degli aiuti sociali grazie a un indicatore basso potrebbe ricadere fuori dai parametri che danno diritto a queste forme di assistenza sociale. Insomma, la strada l’abbiamo percorsa, ma non ci è piaciuta. Anche perché esiste invece la via formalmente più corretta che quest’anno ho finalmente deciso di seguire: quella del “senza fissa dimora”.
Dichiarare senza mentire
Perché la definisco la più corretta? Perché è una fotografia veritiera di quella che è la propria condizione residenziale: non c’è un “luogo in cui la persona ha la dimora abituale” e soprattutto ci sono spostamenti frequenti. Dato che la residenza è una dichiarazione obbligatoria che si fa sotto la propria responsabilità, non ho mai capito il senso di dover dichiarare il falso. Questo ci porta a cercare di capire come funziona questa formula, che per molti è una sorta di “Sacro Graal” irraggiungibile per l’ostruzione incomprensibile da parte di alcuni uffici anagrafe o, più banalmente, perché le persone non sono in condizione di spiegare nel modo corretto, e quindi convincente, la loro condizione.
Essendomi informato a lungo e avendo intrapreso con successo questo percorso, desidero condividere la mia esperienza, sperando di riuscire a fare un po’ di chiarezza (perché nonostante quello che si dice in giro i punti oscuri ancora ci sono) e soprattutto di essere utile a chi si trova di fronte al problema del rifiuto al riconoscimento della condizione di senza fissa dimora da parte degli uffici comunali.
Partiamo da una base semplice. La residenza è un diritto per tutti: lo sanciscono la legge 1228, che risale addirittura al 1954, e la Corte di Cassazione che si è espressa nel 2000 (Sezioni Unite, 19 giugno 2000 n. 499) sostenendo che l’iscrizione anagrafica non è un provvedimento concessorio, bensì un diritto per il cittadino e un obbligo per l’ufficiale dell’anagrafe. Nell’articolo 43 del Codice Civile viene definita come “la dimora abituale”, perché ce ne possono essere anche di temporanee, come quando ci si sposta per diverso tempo per lavoro o per vacanza, e non coincide con il “domicilio”, definito come il luogo in cui una persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”. Non solo: i domicili possono essere anche più di uno.
Alla residenza sono legati i diritti civili: solo la registrazione anagrafica consente infatti di ottenere la tessera sanitaria(con relativo medico di base) e quella elettorale (per poter votare), la possibilità di iscriversi ai centri per l’impiego, nonché l’accesso al patrocinio gratuito e agli ammortizzatori sociali. Chi decide di ignorare il tema della residenza rischia quindi di trovarsi in situazioni poco piacevoli.
Il problema delle diverse norme
A definire come i Comuni debbano regolarsi di fronte a un cittadino che dichiara di essere senza fissa dimora sono differenti normative, e proprio questa diversità causa problemi interpretativi. Una cosa però è chiara: questa condizione va riconosciuta. Se si individua un domicilio, il Comune deve solo accertare che questo sia effettivo, non sulla base della reperibilità della persona (visto che è senza fissa dimora), ma sulla base dei suoi interessi: in uno specifico Comune possono esserci affetti familiari e personali, si può avere un conto in banca, potrebbe esserci la sede legale della propria azienda, ci potrebbero essere diversi clienti per la propria attività. Solo se questi elementi non vengono riscontrati dall’ufficiale dell’anagrafe il Comune può non riconoscere come valida la dichiarazione.
In questo caso si può tentare di resistere con azioni anche legali oppure ricorrere al “piano B”: nel caso non si riesca a individuare un domicilio effettivo, il Comune di nascita non può negare l’iscrizione anagrafica. Di fronte a un ennesimo rifiuto non si può fare altro che attrezzarsi con una risposta legale. Questo non è certo il punto di arrivo ideale, per cui proverò a suggerirvi una strategia che con me ha funzionato.
Presentarsi preparati
Prima di tutto preparatevi bene: la conoscenza delle normative aiuta molto. Secondo: siate pazienti, cortesi e completi nelle vostre spiegazioni. Io ho avuto la fortuna di trovare una responsabile dell’Ufficio Anagrafe abbastanza preparata e competente (e non escludo che lo sia diventata dopo la nostra prima richiesta di informazioni nel lontano 2019). Se così non fosse, suggerire i corretti riferimenti normativi invitando a d approfondire il tema potrebbe essere un modo per mostrarsi collaborativi e ottenere la giusta attenzione.
Può capitare, infatti, che si venga “respinti” con la richiesta di rivolgersi ai Servizi Sociali, come se si avessero problemi economici o personali tali da non poter affrontare la spesa legata a un’abitazione tradizionale. Se il punto di partenza è che siete invece persone economicamente indipendenti, è ovvio che questa non sia la strada giusta. Come detto in precedenza, non si sta parlando di “senza tetto”.
Per evitare questo tipo di riposta, mi sono preparato una completa documentazione. Ogni ufficio anagrafe può riceverla sia su supporto cartaceo sia tramite posta elettronica, scelta che ho preferito, utilizzando la PEC. Il primo documento che ho preparato è stata una lettera di accompagnamento.
La lettera
Spettabile Ufficio,
con la presente si trasmette la Dichiarazione di residenza senza fissa dimora, accompagnata dalla dichiarazione finalizzata all’accertamento dei fatti.
Sono altresì allegati: copia della carta di identità del dichiarante; tessera sanitaria del dichiarante, copia della patente del dichiarante e della carta di circolazione di ciascun veicolo immatricolato in Italia.
Il Sottoscritto inoltre dichiara che la residenza senza fissa dimora si rende necessaria perché il mio lavoro di giornalista libero professionista (regolarmente iscritto all’albo professionale dell’Ordine dei Giornalisti e alla cassa di previdenza INPGI) specializzato in turismo itinerante mi porta a non avere una dimora abituale. Non essendo proprietario di alcun immobile e non avendo contratto di affitto per immobili residenziali, utilizzo regolarmente un veicolo ricreazionale (autocaravan) di mia proprietà. Al proposito si veda anche l’allegata dichiarazione.
La dichiarazione
Il secondo importante documento che ho preparato è una dichiarazione:
DICHIARAZIONE resa ai sensi del primo comma dell’art. 2 della L. n. 1228/1954, allegata alla dichiarazione di residenza di cui al medesimo articolo
Io sottoscritto, Paolo Galvani, nato a xxx il xxx, attualmente residente in xxx ai fini dell’accertamento dei fatti con la presente
DICHIARO che:
- il Comune di xxx è sede principale dei miei affari e interessi, in quanto dal 2015 collaboro con xxx e che nello stesso comune risiedono mia moglie, i miei figli e mia madre;
- la mia professione di giornalista specializzato nel settore del turismo itinerante mi porta a viaggiare continuamente per presenziare a fiere di settore in tutta Europa e a visitare costantemente strutture ricettive all’aria aperta in Italia e all’estero;
- per esercitare nel modo ottimale la mia professione di giornalista specializzato in turismo all’aria aperta mi avvalgo di un veicolo ricreazionale (autocaravan) che costituisce così la mia dimora abituale, ma che per sua natura non si trova fisso in alcun luogo;
- quando presente sul territorio comunale, sono normalmente ospitato nell’area privata di casa di mia madre, in via xxx (dove rimarrò reperibile nelle prossime settimane per gli accertamenti del caso);
- il veicolo targato xxx è comunque completamente autosufficiente per quanto riguarda riserve di acqua, energia elettrica (è dotato di batteria servizi e impianto fotovoltaico per la ricarica) e riscaldamento (con apposita stufa a gas regolarmente omologata e manutenuta);
- per la gestione e lo scarico delle acque reflue mi avvalgo regolarmente dell’impianto “camper service” sito nel Comune di xxx in via xxx;
- per la gestione della raccolta differenziata dei rifiuti mi appoggio di volta in volta alle strutture che mi ospitano;
- il veicolo in uso è regolarmente manutenuto e in perfette condizioni igieniche e di salubrità.
A questo ho allegato il modulo standard per la Dichiarazione di residenza senza fissa dimora, dichiarando di disporre di un “domicilio digitale” ai sensi dell’articolo 3-bis, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 82/2005. Questo dovrebbe (nel mio caso avrebbe dovuto) evitarmi di indicare un luogo fisico, ma come vedremo dopo non è stato possibile.
Risposta positiva, ma…
Per mio scrupolo, visto che ne avevo la possibilità, tutti i documenti inviati per posta elettronica certificata alla mail del Comune sono stati anche digitalmente firmati. Questo non è strettamente necessario, ma potendolo fare è un ulteriore indicatore del fatto che siamo consapevoli di come ci si muove nel mondo della burocrazia italiana e potrebbe giocare a favore della richiesta.
Dopo qualche giorno dall’invio sono stato contattato telefonicamente dalla responsabile dell’Ufficio Anagrafe che si è congratulata con me per la chiarezza dell’esposizione e mi ha confermato che il Comune avrebbe preso atto della mia dichiarazione. Mi ha però chiesto di ripresentare la Dichiarazione di residenza senza fissa dimora utilizzando il modulo specifico di quel Comune (sia mai che si vada fuori standard…) e mi ha negato sia l’iscrizione in una via fittizia sia il riconoscimento del domicilio digitale.
Per il primo punto ha sostenuto di avere sempre sconsigliato il Comune di istituire una via fittizia perché a suo parere la normativa non sarebbe così chiara (ma la fio.PSD, Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora, elenca ben 248 vie fittizie istituite da altrettanti Comuni italiani di dimensioni medie e grandi). E poi, ha aggiunto, “se dovessimo iscriverla a una ipotetica via della Casa Comunale, sarebbe immediatamente evidente a chiunque che è un senza fissa dimora, e potrebbe essere sgradevole anche per lei…”.
Per il domicilio digitale, invece, si è detta sostanzialmente contraria perché sarebbe in contrasto con la Legge 15 luglio 2009, n. 94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica“. A una lettura di questa (illeggibile) normativa, fatta di rimandi e correzioni di leggi precedenti, io non sono riuscito a trovare nulla che giustificasse una presa di posizione di questo tipo. Ma l’Ufficiale di Stato Civile, responsabile di questo tipo di registrazioni anagrafiche, ha facoltà di rifiutare un domicilio, se non accertato. A questa presa di posizione è possibile esclusivamente presentare formale ricorso.
Il compromesso raggiunto
Nel mio caso, dopo una conversazione nella quale ho espresso contrarietà a istituire un domicilio da parenti o amici, ho alla fine concordato di stabilirlo presso un locale pubblico (un bar, con l’accordo dei proprietari miei amici) dopo essermi accertato che questo non avrebbe avuto alcuna conseguenza in materia di imposte o altro. L’indirizzo di quel bar è anche diventata la mia nuova residenza ufficiale, non esistendo appunto nel Comune una via fittizia.
Avrei potuto resistere legalmente a questa presa di posizione, ma visto che la soluzione proposta dall’ufficio anagrafe avrebbe risolto il mio problema ho preferito chiuderla lì. Mi è stato quindi fatto firmare un documento che acconsente alla mia iscrizione (obbligatoria) al “Registro nazionale delle persone senza fissa dimora”, un’odiosa schedatura i cui fini sono probabilmente riconducibili alla lotta all’immigrazione clandestina, più che a ragioni che hanno a che fare con cittadini italiani nelle mie condizioni. Ma questo è lo scotto da pagare per chiunque, privo di dimora fisica, voglia vedere riconosciuti i propri diritti.
Insomma, alla fine il mio obiettivo è stato raggiunto, anche se non esattamente come previsto. Mi sarei infatti aspettato di essere iscritto in una via fittizia e raggiungibile con un domicilio digitale (la PEC, che comunque è stata inserita nella mia scheda anagrafica). Mi ritrovo invece con residenza e domicilio presso un bar. Cosa che andrà bene fino a che saranno i miei amici a gestirlo. Quando le cose cambieranno, comincerà la ricerca di una soluzione diversa.